Eccellenze per il palato

CANTINE CHIARLI,
da 150 anni a Modena
di Luca Bonacini
La Modena dell’Ottocento era cosparsa di tante piccole osterie, dai nomi davvero curiosi che ci riportano ai tempi in cui il dialetto era lingua corrente, mentre l’insegna non lasciava dubbi sulla vocazione di quell’attività, come la Pòvva, la Sèmia, la Scòfia, (in modenese sinonimi di sbornia). Una in particolare richiamava a sé un numero considerevole di  avventori, che varcavano la soglia per la qualità del vino e per l’amabilità dell’oste: Cleto Chiarli. Fu fra le mura dell’osteria l’Artigliere, dunque, all’angolo tra via della Cerca e via del Voltone, che nacque quella celebre dinastia che avrebbe portato il lambrusco di Modena nel mondo. Quell’insegna evocava ardimenti che di li a poco avrebbero infiammato i modenesi e gli assidui frequentatori fedeli a quel liquido spumeggiante e scuro, erano chiamati “i suldè ed Chiarli” (i soldati di Chiarli), e gremivano quei locali dall’atmosfera raccolta, dal denso fumo di sigari toscani e di pipe, e dal gran vociare, trascorrendovi pomeriggi interi. Il vino comune era servito a litri, a mezzi o a quartini, quello pregiato, il lambrusco, era in bottiglia, tutti si conoscevano e chi veniva da fuori diveniva presto amico, davanti a un bicchiere, a un cartoccino con salame o formaggio portato da casa, a un piatto saporito e appetitoso preparato con perizia da Lucia Chiarli, oppure giocando l’ennesima rivincita a scopone, a briscola, a tresette o a strappetto. Il fabbisogno del locale divenne importante e si cominciò a vinificare in proprio in una cantina in piazza della Pomposa, mentre l’ingresso del figlio Anselmo nell’attività di famiglia, insieme all’ormai intensa richiesta di vino da privati e osti, consentì nel volgere di pochi anni, all’ampliamento dell’originaria cantina. Alla proclamazione dell’Unità d’Italia Cleto cessò di occuparsi dell’Osteria, per concentrare tutte le forze nella nascente attività di produrre il miglior Lambrusco, con risultati che non tarderanno a vedersi. La più antica bottiglia in circolazione datata 1890 con etichetta Lambrusco di Modena, viene conservata gelosamente dalla famiglia Chiarli, testimone di un illustre passato, i successi all’Expo di Parigi nel 1900, dove i cugini di oltralpe riconoscono alla Cleto Chiarli & Figli, la prestigiosa “Mention Honorable”, e una capillare organizzazione commerciale diffondono l’amato lambrusco ad ogni angolo del pianeta. Solo il periodo bellico costringe a una battuta d’arresto, quando nel ’44 il moderno stabilimento di via Canaletto viene raso al suolo dai bombardamenti, ma la completa ricostruzione vedrà ancora una volta tutta la famiglia in campo, portando a nuovi esaltanti successi, e a 20 milioni di bottiglie prodotte nel 2010, suggellate quest’anno con il conseguimento dei “3 bicchieri”, il prestigioso riconoscimento della guida Gambero Rosso.
Pubblicato sul Resto del Carlino il 4.05.2012
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Torta degli Ebrei: una ricetta per ricominciare
di Luca Bonacini
Castelfranco è patria del Tortellino; Spilamberto e Cognento sono culla dell’Amaretto; il Frignano ha le sue Crescentine; Zocca e Guiglia il Borlengo, mentre Finale Emilia contribuisce da sempre alla ricca gastronomia modenese con la Torta degli Ebrei. Alcune ricette della nostra cucina rappresentano il paese dove sono nate come una bandiera, hanno attraversato secoli prima di arrivare a noi, modificandosi lievemente in funzione di una naturale evoluzione del gusto e ora come ieri sono ancora sulle nostre tavole. La Torta degli Ebrei è piatto sostanzioso di antica memoria, un’appetitosa sfogliata ottenuta con burro, farina, strutto e Parmigiano reggiano, che nell’originale versione con il grasso d’oca, ma senza strutto e burro, era appannaggio della tradizione ebraica. Mi conferma Giuseppe Pederiali scrittore internazionale, e finalese doc, che gli israeliti fuggiti dalla Spagna e dalle persecuzioni dei musulmani, giunsero a Finale nel 1598 al seguito degli Estensi in fuga da Ferrara, fondando una numerosa e vivace comunità. Con loro giunse anche questa ricetta, nutriente e gustosa, da consumarsi senza piatto e forchetta,  che ci riporta alla cucina di un tempo lontano, apparentemente di semplice preparazione, e con pochi fronzoli, ma che nasconde un segreto tramandato solo alle Rezdore con la erre maiuscola. Lo storico della Bassa modenese Piero Gigli ci rivela che nel 1861 fu Mandolino Rimini di Aronne convertitosi  al Cristianesimo e divenuto Giuseppe Alfonso Alinovi, a portare quella gustosa ricetta al di fuori del ghetto ebraico aggiungendo lo strutto all’originale ricetta, e segnando cosi la completa rottura con la Comunità israelitica finalese. La Torta, in dialetto “sfuiada” o “tibuia” viene preparata nelle grandi padelle e consumata in autunno, in particolare nella ricorrenza dei defunti, venduta agli angoli delle vie o sotto i portici, servita ben calda nell’inconfondibile carta gialla, accompagnata ad un bicchiere di Anicione, assecondando chi la preferisce gustata a piccoli morsi o chi invece sfogliando lentamente i tanti sottili strati della “torta”, ricchi di parmigiano. E’ difficile non pensare a ciò che stanno passando gli abitanti di Finale e dei territori circostanti duramente provati dal sisma, una cittadina chiamata per secoli la “Venezia degli Estensi” per la bellezza del suo centro storico e per i canali navigabili che la attraversavano, difficile non pensare a quanto lavoro era stato fatto dai ristoratori della zona, da Antonio della trattoria Entrà, da Giovanna della trattoria La Fefa,  luoghi di elezione e giacimento delle tradizioni culinarie finalesi più antiche, chissà se parlare di tradizione non ci aiuti a guardare avanti, per ricominciare.
 Pubblicato sul Resto del Carlino il 25.05.2012

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Il Parmigiano
del CASEIFICIO SANTA RITA a Pompeano
di Luca Bonacini
Chissà se il Principe Carlo d’Inghilterra mentre assaggiava il Parmigiano del Caseificio Santa Rita in quell’ esclusiva degustazione si sarà immaginato la storia plurisecolare che quel prelibato formaggio rappresenta? Alle prime luci dell’alba la valle che circonda il cinquecentesco castello di Pompeano di Serramazzoni, tornato all’antico splendore, è rigogliosa e piena di vita, ed entrare al Caseificio Santa Rita dove il casaro è già in azione e tutto è pronto perché avvenga quella misteriosa trasformazione, è un po’ come prendere parte a una funzione sacra che ogni mattina si celebra con le medesime regole. Sottoporsi a una levataccia, può essere molto piacevole se si tratta di assistere a un rito che si ripete da più di sette secoli, nel quale la saggia esperienza del casaro si esprime in movimenti veloci e sicuri, un procedimento dove la manualità dell’uomo non è sostituibile da nessuna macchina, e plasmerà l’inconfondibile forma apprezzata a tutte le latitudini e citata dal Boccaccio nel Decamerone.
Il caseificio è realizzato ispirandosi ai “caselli” ottagonali di ‘700 e ‘800 che avevano in ogni lato una fase di lavorazione, all’interno si persegue con rigore scientifico la tradizione del buon Parmigiano, ottenuto con latte di vacca bianca modenese, presidio Slow Food, e una particolare attenzione al biologico, che qui è parola d’ordine, la struttura architettonica è di grande impatto scenografico con ampi spazi che accolgono oltre 1000 presenze all’anno, degustazioni e visite guidate, per scoprire tutti i segreti del Re dei formaggi.  Tanti i successi conseguiti da questa cooperativa sociale nata nel 1964  dove si esprimono capacità, estro e voglia di far bene nell’operato dei soci guidati dal Presidente Claudio Poggioli e dal fratello Graziano. Non vi sono soggezioni di sorta ad accettare sfide internazionali apparentemente impossibili, come il conseguimento del primo premio vinto su 142 formaggi bio; o il massimo riconoscimento  ottenuto al concorso europeo dei migliori formaggi duri d’Europa. Difficile rimanere insensibili al fascino del Parmigiano, qualche curva non ha dissuaso chef stellati come Gianfranco Vissani, e Massimo Bottura, musicisti come Francesco Guccini, e Vinicio Capossela, illuminati gourmet come Carlin Petrini, astronauti del calibro di Maurizio Cheli, che si sono arrampicati fin quassù per saperne di più ma anche per assaggiare. Una realtà produttiva modenese di pregio di cui essere fieri, che esporta oltre il 50% del proprio prodotto, spedizioni che raggiungono paesi lontani, e personaggi noti come il Presidente Fidel Castro e il politico Al Gore, portando Modena nel mondo.
Pubblicato sul Resto del Carlino del 15.06.2012 

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